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 I DIVERTIMENTI DEGLI INDIANI A CONTATTO CON LA NATURA

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MessaggioTitolo: I DIVERTIMENTI DEGLI INDIANI A CONTATTO CON LA NATURA   I DIVERTIMENTI  DEGLI  INDIANI A CONTATTO CON LA NATURA Icon_minitimeLun Mar 03, 2008 8:11 pm

Gli indiani eccellevano nelle competizioni sportive che richiedevano prontezza e abilità atletica. Quando non erano a caccia o sul sentiero di guerra, dedicavano molta parte del loro tempo alla lotta, alle gare di tiro a segno con frecce e coltelli, alle gare podistiche, nonché alle partite di palla tra le diverse tribù e alle corse di cavalli.


Ultima modifica di Admin il Lun Mar 03, 2008 8:18 pm - modificato 2 volte.
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MessaggioTitolo: GIOCHI DEI BAMBINI SIOUX   I DIVERTIMENTI  DEGLI  INDIANI A CONTATTO CON LA NATURA Icon_minitimeLun Mar 03, 2008 8:11 pm

di Ohiyesa, Sioux.

da Indian Boyhood, pp. 63-75



Ohiyesa (dott. Charles A. Eastman), il più famoso di tutti gli scrittori indiani, nacque nel 1858 nei pressi di Redwood Falls, nel Minnesota, e fuggì con suo zio nel Canadà, dopo il massacro del Minnesota, avvenuto nel 1862. fino all’età di quindici anni visse fra i Sioux Santee. Frequentò la scuola della missione a Santee, nel Nebraska; uscì dal liceo di Dartmouth nel 1877 e tre anni dopo si laureò all’Università di Boston; dopo un periodo, che non gli portò che amarezze e delusioni, in cui esercitò la professione di medico del governo presso l’agenzia di Pine Ridge, nel Sud Dakota, intraprese il libero esercizio della professione. Incoraggiato dalla moglie (Elaine Goodale), Ohiyesa si mise a scrivere, in pari tempo tenendo delle conferenze, e dopo la pubblicazione del suo primo libro, Indian Boyhood (Fanciullezza Indiana) del 1902, fu considerato un’autorità per quanto riguardava i Sioux. Fino alla morte, avvenuta nel 1939, Ohiyesa continuò a scrivere libri e articoli, notevoli soprattutto per l’ampio e bello stile.

Racconta: Ohiyesa (dott. Charles A. Eastman).

L’ambiente è quello della Columbia Britannica fra il 1865 e il 1870.

Il ragazzo indiano era il re dei grandi spazi deserti. Durante l’infanzia, aveva ben poco da fare. La sua occupazione principale consisteva nel praticare qualche semplice esercizio di guerra e di caccia. A parte ciò, poteva disporre liberamente del suo tempo.

Qualsiasi cosa si richiedesse da noi ragazzi, la si sbrigava in fretta, e poi avevamo campo libero per giocare e divertirci. Tra noi avevano sempre luogo gare accanite; ci mettevamo lo stesso entusiasmo che i nostri padri mettevano nella caccia e nella guerra, ciascuno sforzandosi di prevalere sugli altri. E’ vero che la nostra vita libera era piuttosto precaria e funestata da terribili catastrofi, tuttavia questo non ci impedì mai di divertirci fino in fondo. Quando al mattino lasciavamo il tepee, non eravamo mai sicuri che al pomeriggio i nostri scalpi non avrebbero penzolato in cima a una pertica! Era una vita sospesa a un filo, questo è certo, eppure attorno a noi i cerbiatti saltavano e giocavano felici, anche se, magari, i lupi grigi li adocchiavano da dietro le colline, pronti a sbranarli.

I nostri giochi erano modellati sulla vita e i costumi del nostro popolo; in realtà, non facevamo altro che esercitarci a quello che avremmo dovuto fare da grandi. I nostri esercizi consistevano in gare con arco e frecce, corse a piedi e a cavallo, lotta, nuoto, e imitazione delle usanze e dei modi di fare dei nostri genitori. Giocavamo alla guerra con palle di fango e bacchette di salice; praticavamo il gioco del “lacrosse”, facevamo guerra alle api e slittavamo sulla neve servendoci di costole di animali e pelli di bufalo.

I ragazzi non si mettevamo mai a giocare prima di dividersi, di regola, in squadre, e scegliere il campo; poi, per dare inizio al gioco, si tirava a caso per aria una freccia. Prima che questa toccasse terra, da tutti i nostri archi partiva una scarica; ciascun giocatore aveva subito rilevato la direzione e la velocità della prima freccia, e cercava di scagliare la propria alla stessa altezza e con la medesima velocità, in modo che cadendo si venisse a trovare più vicina alla prima di tutte le altre. Neanche da pensare a raggiungere, al primo colpo, l’oggetto preso di mira: in pratica, di solito, era impossibile, trattandosi quasi sempre di oggetti in movimento, mentre il cacciatore si trovava spesso in groppa a un cavallo lanciato al galoppo. Di conseguenza, il ragazzo indiano cercava di raggiungere piuttosto la massima velocità nel tiro.

Le corse di cavalli erano all’ordine del giorno. A mezzogiorno, di solito i ragazzi si riunivano presso qualche bello specchio d’acqua e dopo che i cavalli s’erano rinfrescati, li si lasciava pascolare in libertà per un’ora o due, mentre i ragazzi si spogliavano e si preparavano agli esercizi. Ecco allora, ad esempio, un ragazzo rivolgersi a un altro che riteneva suo pari, dicendo:

“Oggi corro male, ma ti do lo stesso cinquanta passi di vantaggio.”

Un giovane eroe, in caso di sconfitta, c’era da aspettarsi che si giustificasse con un: “ Devo aver bevuto troppa acqua.”

Infine c’era il nuoto: ed ecco un marmocchio aggrapparsi alla coda del suo cavallo, e questo, con solo la testa fuori dall’acqua, fendere bravamente la corrente. Alla fine, spingevamo gli animali in un bel prato e ci dedicavamo ad altri passatempi.

Il “Lacrosse” era un vecchio gioco praticato solo dai Sioux Sisseton e Santee. Il pattinaggio, identico a quello con cui si divertono i ragazzi bianchi sul ghiaccio, è praticato ancor oggi dai Sioux dell’Ovest nelle Grandi Praterie. Il “gioco del mocassino” (simile alla nostra caccia al tesoro), benché a volte fosse praticato anche dai ragazzi, era per lo più riservato agli adulti.

La “lotta del fango e del salice” era invece un gioco serio e pericoloso. Si poneva un blocco di molle argilla all’estremità di una bacchetta di salice, flessibile ed elastica, e la si scagliava con una certa forza. Quando c’erano cinquanta o magari cento giocatori per parte, il combattimento diventava accanito; ma qualsiasi cosa servisse a mettere alla prova il coraggio dei ragazzi indiani, pareva loro un divertimento sano e bello.

La lotta era largamente praticata da tutti noi. Può sembrare strano, ma vi partecipavano moltissimi ragazzi alla volta – da dieci in su per parte – senza limitazione di numero. Era una vera e propria battaglia, nella quale ciascuno sceglieva il suo avversario. Di regola, se un ragazzo era messo a terra, non veniva toccato, ma fintantoché rimaneva in piedi, doveva aspettarsi di essere attaccato. Nessuno tirava pugni, ma erano permessi ogni sorta di sgambetti e di colpi con le ginocchia, per cui risultava una cosa massacrante – non meno del gioco americano del calcio – e solo i giovani atleti erano in grado di praticarlo a regola d’arte.

Uno dei nostri giochi più curiosi era la guerra agli alveari delle api selvatiche. Fingevamo di attaccare gli Ojibway o qualche altro nemico della tribù. Ci dipingevamo da capo a piedi e ci avvicinavamo quatti quatti agli alveari; poi, con un balzo ed emettendo il grido di guerra, ci gettavamo sull’oggetto del nostro attacco allo scopo di distruggerlo. Ma, a quanto pareva, le api erano sempre sul chi vive, e non riuscivamo mai a coglierle di sorpresa, perché il risultato era sempre un numero di scalpi equivalente a quello dei baldi assalitori! Al termine della carica contro l’alveare, di solito eseguivamo una specie di danza degli scalpi.

Quando feci la mia prima esperienza in questo genere di battaglia, c’erano con me due altri ragazzini novizi al pari di me. uno dei due, soprattutto, era troppo piccolo per partecipare a imprese del genere. Siccome era usanza della nostra gente, quando s’uccideva o feriva un nemico sul campo di battaglia, di darne notizia ad alta voce, noi facevamo lo stesso. Il mio amico Piccola Ferita (lo chiameremo così, perché non ricordo più il suo nome), essendo piccolissimo, raggiunge l’alveare, solo quando questo era stato calpestato e fatto a pezzi, e gli insetti s’erano a loro volta lanciati all’assalto con una tale violenza, da farci indietreggiare e disperderci in ogni direzione. Ma il piccolo, evidentemente, non voleva ritirarsi senza essersi fatto onore, perciò saltò sull’alveare urlando: “Io, il coraggioso Piccola Ferita, uccido il crudele nemico!”

Aveva appena finito di pronunciare queste parole, che si mise a strillare, come se l’avessero pugnalato al cuore. Uno dei suoi compagni più grandi gridò: “Buttati in acqua! Dai! Buttati in acqua!” c’era infatti un lago poco distante e, il piccolo non se lo fece dire due volte.

Quando ci fummo riuniti, e ci mettemmo ad eseguire la nostra pantomima, Piccola Ferita non fu ammesso alla danza. Lo si considerava morto, ucciso dai nostri nemici, la tribù delle Api. Povero bambino! Se ne stava seduto su un tronco a osservare la danza, triste e vergognoso, col faccino tutto gonfio. Benché si fosse fatto onore come uno dei nobili combattenti caduti per il proprio paese, pure non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che s’era lasciato sfuggire uno strillo e questa sua debolezza gli sarebbe certo tornata alla mente in futuro.

Avevamo anche dei giochi un po’ più tranquilli, che alternavamo a quelli più movimentati e bellicosi; e tra essi figuravano il lancio dei bastoni e le battaglie a palle di neve. D’inverno slittavamo; non avevamo “assicelle doppie” o slitte, ma sei o sette lunghe costole di bufalo, legate assieme all’estremità più grossa, rispondevano ugualmente bene allo scopo. A volte si usava con notevole abilità un pezzo di corteggia di tiglio, lungo un metro e trenta e largo circa quindici centimetri. Noi ci appollaiavamo ad una delle estremità e ci tenevamo aggrappati all’altra, rivolgendo all’esterno la parte interna e scivolosa della corteccia, e così ci lasciavamo andare lungo il fianco delle colline a notevole velocità.

Con la trottola, si faceva uno dei giochi invernali più emozionanti. Ci fabbricavamo le trottole a forma di cuore, usando legno, corno, od osso. Da frusta serviva una lunga striscia di pelle di capriolo con un manico di legno lungo una trentina di centimetri, che a volte s’intagliava all’estremità a forma di cucchiaio.

Con queste trottole facevamo delle gare, alle quali prendevano parte da due a cinquanta ragazzi per volta. Ciascuno frustava la sua trottola, finché questa si metteva a ronzare; poi, uno prendeva una direzione, e tutti gli altri dietro, in una specie di corsa a ostacoli: la trottola non doveva fermarsi mai. C’erano dei mucchi di neve sui quali dovevamo spingerla servendoci della spatola con cui terminava la frusta; e di qui farla volare su un altro punto della distesa di ghiaccio o di una liscia superficie nevosa, a venti, magari cinquanta passi di distanza. Vinceva che faceva arrivare più lontano la sua trottola.

A volte, giocavamo alla “danza di medicina”, che, per noi, equivaleva al “giocare alla chiesa” dei bambini bianchi, ma pareva che la nostra gente considerasse azione irriverente l’imitare quelle danze per cui le nostre esecuzioni avevano luogo in segreto. Eravamo soliti stare ad osservare tute le cerimonie importanti, e per ripetere le movenze drammatiche della danza era necessario possedere un certo senso teatrale. Le danze dei grandi si protraevano per un giorno e una notte, e il programma era lungo e variato, cosicché non era facile riprodurre esattamente tutti i particolari; ma i bambini indiani sono imitatori nati.

Di tanto in tanto, giocavamo anche all’ “uomo bianco”. La nostra conoscenza dei visi pallidi era limitata, ma avevamo sentito dire che ogni qualvolta arrivavano, essi portavano merci, in cambio delle quali la nostra gente dava loro pellicce. Sapevamo anche che avevano la carnagione pallida, peli corti in testa e peli lunghi in faccia, che indossavano giacca, calzoni e cappello, e di giorno non si coprivano con le coperte. Questa, l’immagine che ci eravamo formati dell’uomo bianco.

Perciò pitturavamo con della creta bianca due o tre di noi, e mettevamo loro in testa dei cappelli di scorza di betulla che avevamo fabbricato apposta; legavamo loro un pezzo di pelliccia intorno al mento per imitare la barba; in una parola, facevamo del nostro meglio per travestirli. Bianche cortecce di betulla servivano a fingere le camicie bianche.

Le mercanzie consistevano in sabbia al posto dello zucchero, fagioli selvatici per il caffé, foglie secche per il tè, terra polverizzata per la polvere da sparo, sassolini per le pallottole, e acqua pura per la pericolosa “acqua di fuoco”. Compravamo queste merci con pelli di scoiattolo e di coniglio, e penne di uccellini.

Quando giocavamo alla “caccia al bufalo”, mandavamo qualche ragazzo che sapesse correre bene nell’aperta prateria con una scorta di carne; poi partivano altri ragazzi ugualmente veloci, per inseguirli e catturare il cibo. Una volta, eravamo intenti a questo gioco, mentre si svolgeva una caccia vera in cui erano impegnati gli uomini della tribù; non ci rendemmo conto che questo avveniva a brevissima distanza dal luogo in cui ci trovavamo, fino al momento in cui, nel bel mezzo del gioco, non vedemmo un enorme bufalo dirigersi a tutta velocità verso di noi. La nostra imitazione della caccia al bufalo si trasformò in una oltremodo realistica paura del bufalo. Per fortuna, eravamo vicini al limite del bosco e in un baleno sparimmo fra la vegetazione come una covata di giovani tacchini, a alcuni si nascosero fra la sterpaglia, mentre altri si rifugiarono in cima agli alberi.

Ci piaceva molto giocare nell’acqua. Se non avevamo cavalli, spesso ci cimentavamo in gare di nuoto fra di noi, e a volte fabbricavamo delle zattere con le quali traversare laghi e fiumi. Era una cosa piuttosto comune “far bere” un ragazzino piccolo o timido, oppure spingerlo nell’acqua profonda e lasciare che se la cavasse come meglio poteva. Mi ricordo di un pericoloso viaggetto con un mio compagno, a cavalcioni di un tronco ribelle, quando ambedue non avevamo ancora sette anni. I ragazzi più grandi di noi ci avevano messi su quella malsicura imbarcazione e spinti nella rapida corrente del fiume. Non so come la pensi il mio compagno di sventura, ma adesso posso dire che preferirei andare tutti i giorni su un veloce bronco, piuttosto che tentare di mantenermi in equilibrio su un corto tronco in mezzo a un fiume. Non sono mai riuscito a capire come abbiamo fatto a evitare il naufragio e a raggiungere la riva.

Avevamo molti strani beniamini selvatici, fra i quali cuccioli di volpi, orsi, lupi, procioni, cerbiatti, vitellini di bufalo, e uccelli d’ogni specie, addomesticati da questo o da quel ragazzo. I miei beniamini cambiavano a seconda del momento, ma ne ricordo soprattutto uno: un orso grigio, e per quanto riguarda lui e me, i nostri rapporti erano ottimi. Ma non saprei dire se fosse lui a procurare più nemici a me, o io a lui. Aveva l’abitudine di trattare malissimo ogni ragazzo che mi insultava, ed era visto di malocchio per il modo con cui si comportava per difendermi, mentre io ero odiato per via dell’orso.
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MessaggioTitolo: GIOCHI DEI BAMBINI HOPI   I DIVERTIMENTI  DEGLI  INDIANI A CONTATTO CON LA NATURA Icon_minitimeLun Mar 03, 2008 8:21 pm

GIOCHI DEI BAMBINI HOPI

di Don C. Talayesva, Hopi.

da Sunchief: the autobiography of o Hopi , a cura di Leo W. Simmons, p. 62



Talayesva custode del Kiva (pozzo sacro) della Collina del Sole appartenente alla sua tribù, nacque nel 1890 e crebbe fra gli Hopi a Oraibi, nell’Arizona. A dieci anni, iniziò lo studio dell’inglese. “Imparai ben poco il primo anno di scuola, “ scrisse più tardi; “ sapevo dire soltanto – bravo ragazzo, buon ragazzo, sì, no, chiodo, e caramella.” Tuttavia, riuscì ad imparare la lingua ed accettò i costumi degli uomini bianchi, ma più tardi fece ritorno al suo antico villaggio. Fra il 1938 e il 1941, con l’aiuto del Simmons, scrisse la storia della propria vita.



Racconta: Talayesva.

L’ambiente è quello dell’Arizona attorno agli anni 1890.

Avevamo imparato a prendere gli scarafaggi e farli andare in circolo: li chiamavamo i nostri “cavalli selvaggi”, ma ci avevano ammoniti di non far loro mai del male, perché, a quanto i vecchi dicevano, erano buoni per curare certe malattie. Non giocavo mai con i ragni, per via della loro madre, la Donna Ragno. Non davo mai noia ai falchi e alle aquile appollaiate sui tetti delle case (uccelli in cattività, usati nelle cerimonie religiose), perché ci avevano detto che erano creature sacre.

Fabbricavamo collane di rospi cornuti e ce le mettevamo intorno al collo. Dicevano i vecchi: “ non date troppo fastidio ai rospi; sono spiriti, e ci possono aiutare. “se prendevo in mano una lucertola o un rospo cornuto, non ne avevo affatto paura. Una volta trattai male un rospo, e quello mi morse. Questo mi servì da lezione. Mi sarei ben guardato dal legare un rospo con una funicella, appendendolo al collo di un altro ragazzo, perché questi avrebbe potuto gettare via il rospo in malo modo, facendolo arrabbiare, e così sarebbe successa una disgrazia. In un primo tempo avevo preso l’abitudine di raccogliere piccoli serpenti, ma più tardi imparai che non era una cosa ben fatta. Un giorno ne uccisi uno piccolissimo, e fu qualcosa di spaventoso.

Davamo la caccia ai polli, bersagliandoli con pannocchie e con frecce finte con cui giocavamo. Eccitavamo i galli per divertirci a vederli combattere. Mio nonno mi insegnò che i polli erano gli animali prediletti dal dio Sole.

“Il canto dei galli, al mattino presto, è importante,” diceva: “Il dio Sole li ha mandati in terra per destare la gente. Egli fa squillare una campanella per far capire ai galli quando è ora di annunciare l’aurora ed essi cantano quattro volte prima che sorga il sole.”
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MessaggioTitolo: GIOCHI DELLE TRIBÙ DELL’EST   I DIVERTIMENTI  DEGLI  INDIANI A CONTATTO CON LA NATURA Icon_minitimeLun Mar 03, 2008 8:21 pm

GIOCHI DELLE TRIBÙ DELL’EST

di Capo Kah-ge-ga-gah-bowh ( George Copway), Ojibway

da Traditional History and Characteristic Sketches of the Ojibway Nation , pp. 47-56.



Capo Kah-ge-ga-gah-bowh (George Copway), nacque nel Canadà centrale nel 1818. Egli descrisse se stesso come “un figlio della natura.” Egli era noto come grande cacciatore e uomo di straordinaria forza fisica. Una volta, portò cento chili di farina, caffè, munizioni e zucchero sulla schiena, per circa mezzo chilometro, senza mai fermarsi. Nella primavera del 1841 traversò l’intero Wisconsin per avvertire gli Ojibway dell’arrivo di una spedizione di guerrieri Sioux. “Percorsi una media di centotrenta chilometri al giorno. – egli scrisse - e arrivai a mezzogiorno del quarto giorno. Avevo percorso quattrocentocinquanta chilometri, guadato otto grandi fiumi, e passato due volte a nuoto il Mississippi.” Nel 1830, si convertì al metodismo e trascorse due anni all’Accademia Ebenezer nei pressi di Jacksonville, nell’Illinois.

Fino alla morte, avvenuta nel Michigan verso il 1863, trascorse gran parte del suo tempo a scrivere e tenere conferenze sui maggiori problemi indiani.



Racconta Capo Kah-ge-ga-gah-bowh (Gorge Copway).

Tali giochi erano in uso presso quasi tutte le tribù del Vecchio Nord-Ovest durante il XVII e XVIII secolo.

I giochi che sto per descrivere sono quelli praticati più comunemente dalla gente della mia nazione. Uno dei giochi più popolari è quello della palla (lacrosse, ora gioco nazionale del Canadà) che spesso vede impegnato un intero villaggio. Le squadre sono composte da un numero di giocatori variante da dieci a parecchie centinaia. Prima di cominciare, quelli che prenderanno parte al gioco devono versare ciascuno la propria puntata o gli oggetti che fanno da posta al gioco, e inoltre scegliere un capitano per parte. Ogni capitano, poi, designa un compagno di squadra cui affidare le puntate. Ogni uomo e ogni donna (a volte infatti giocano anche le donne) è armato di un bastone, che da una parte termina con qualcosa che somiglia a un anello, di circa dieci centimetri di circonferenza, al quale è appesa una reticella fatta di pelle, profonda cinque centimetri, della misura esatta della palla con cui si gioca. Due pertiche piantate nel terreno a una distanza di quattrocento passi l’una dall’altra, servono da meta per le due squadre. Ciascuno si sforza di far entrare la palla nella propria reticella. La squadra che porta la palla a colpire la pertica, vince la partita.

I guerrieri seminudi, giovani e audaci, fantasiosamente dipinti, e le donne adorne di penne, si stringono attorno ai capitani, che di solito sono campioni di corsa. Devono passarsi la palla sia raggiungendosi a vicenda di corsa, sia lanciandola, e se la palla cade in mezzo alla folla dei giocatori, succede un parapiglia. I bastoni oscillano e roteano, i giocatori continuano a correre urlando, cadono e montano uno sull’altro, e nella confusione qualcuno esce dalla mischia piuttosto malconcio. Ogni qualvolta la palla tocca terra, il giocatore che si trova vicino la raccoglie subito, e fila a tutta velocità, inseguito da tre o quattro altri che corrono al pari di lui, incoraggiati dalle grida dei compagni di squadra: “Ha! Ha! Yah!” , “A-ne-gook!”. E tali urla si odono perfino dalle capanne lontane, perché tanto i bambini che gli adulti si entusiasmano molto alla scena. Il loro interesse non è diretto solo ai premi, ma anche ai capitomboli dei giocatori che ruzzolano uno sopra l’altro. Le urla e le grida allegre degli spettatori, che s’affollano sulla soglia dei Wigwam, s’alzano in un coro ininterrotto e danno la misura della loro allegria.

I giocatori ricevono certi colpi di cui, dopo l’incontro, sono chiaramente visibili i segni. Si possono usare mani e piedi, e i contendenti se ne servono egregiamente, e scagliano in alto la palla con tale abilità, da farla scomparire alla vista. Un altro la riprende nella parabola discendente, e a volte il gioco è manovrato così bene, che la palla può non toccare terra anche per dieci minuti di fila.

Non si è mai dato il caso di uno il quale si lamenti, anche se ha preso una bastonata tale, da fargli sanguinare il naso. Se gli capita quest’ultima disgrazia, si rialza in un batter d’occhio, e scoppia a ridere forte come gli altri, anche se è inondato da un fiotto di sangue.

E’ rarissimo, semmai, che qualcuno si mostri arrabbiato per essersi fatto male. Se lo facesse, gli darebbero del vigliacco, a questo è un freno sufficiente in quei casi in cui l’incidente sembra prodotto a bella posta. Il “gioco del mocassino” è semplice, e lo si gioca in due o tre. Tre mocassini servono per nascondere le pallottole che si usano per giocare. Questo a volte diventa talmente interessante che un indiano mette come posta il suo fucile, poi le sue trappole di acciaio, poi l’equipaggiamento di guerra; poi i vestiti, e, da ultimo, il tabacco e la pipa, restando come diciamo noi Nah-bah-wan-yah-ze-yaid vale a dire solo con un pezzo di stoffa stretto alla vita da un laccio.

Il “gioco del lancio” è poco noto ai bianchi. Lo si gioca nel wigwam. Si adopera un nocchio oblungo di cedro, lungo diciassette o diciotto centimetri, all’apice del quale si lega una cordicella lunga una quarantina di centimetri. All’altra estremità del laccio, c’è invece un bastoncino lungo sei o sette centimetri e molto appuntito; la cordicella si tiene in mano, e se il giocatore colpisce il pezzo di legno più grosso ogni volta ogni qualvolta cade dalla parte appuntita, vince.

Il “gioco dell’osso” è un altro passatempo praticato in casa, ed è chiamato così, perché ci si serve di un oggetto ricavato dai garretti dei daini. Ogni osso viene forato alla estremità, e se ne fissano assieme da tre a dieci. Per giocare si adopera il solito bastoncino appuntito, che viene scagliato nelle cavità delle ossa.

Senza dubbio, il più interessante di tutti è il gioco della palla fra ragazze,” vale a dire, in lingua Ojibway, il Pah-pah-se-kah-way. Per lo più quelle che prendono parte al gioco sono giovani fanciulle, ma vi sono ammesse anche le donne sposate. La palla è fabbricata con due sacchetti di pelle di daino, lunghi circa dodici centimetri e mezzo legati assieme in modo che tra l’uno e l’altro ci sia una distanza di diciassette o diciotto centimetri; e la si lancia con un bastone lungo circa un metro e mezzo. Questo gioco viene praticato d’estate, all’ombra di grossi alberi; ogni ragazza punta verso la propria meta, o tahwin, e cerca di raggiungerla con la palla. Le mete vengono assegnate al mattino, e le giovani donne del villaggio si preparano per la giornata, tingendosi le guance di vermiglio, togliendosi tutti i capi di vestiario non strettamente necessari, e acconciandosi i capelli i capelli con penne colorate che ricadono fino a terra.

All’ora fissata, l’intero villaggio si raduna, e i giovanotti, le cui innamorate figurano tra le partecipanti, continuano a girarsi di qua e di là, lanciando sguardi d’intesa alle loro belle e ricevendone in cambio luminosi sorrisi.

C’è la stessa confusione che si nota quando giocano gli uomini. Le squadre si buttano nel gioco con ardore non appena la palla è stata lanciata in aria; nessuna giocatrice si preoccupa degli incidenti che le possono capitare, anche se si tratta di colpi abbastanza duri; le ragazze si alzano lanciando uno strillo acuto, e non si capisce bene se piangono o ridono, e poi si trascinano un po’ zoppicanti dietro le altre, gridando, mentre le spettatrici lanciano grandi strilli: si sentono grida di “Ain goo”, che sembrano il verso dei colombi, dei quali sono una discreta imitazione. I premi di solito consistono in lacci lavorati, mocassini, stivaletti, e colore per le guance. A volte, i capi del villaggio mandano prima che abbia inizio la partita, un involto, il cui contenuto sarà distribuito tra le ragazze che avranno riportato la vittoria.
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